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Il DISCONOSCIMENTO DELLA SOTTOSCRIZIONE NELLE POLIZZE FIDEIUSSORIE: LA “RESPONSABILITA’ AGGRAVATA” IN CASO DI ACCERTAMENTO DELL’AUTENTICITA’

Con sentenza n. 765/2018 dell’8.3.2018, il Tribunale di Bologna ha condannato l’opponente a un decreto ingiuntivo, avente ad oggetto un credito vantato dal garante in forza di una polizza fideiussoria, al pagamento delle spese di cui all’art. 96 comma 3 c.p.c.

L’art. 96, comma 3, c.p.c. prevede la possibilità di una condanna, della parte soccombente in sede di pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 c.p.c., al pagamento di una somma equitativamente determinata a discrezione del Giudice.

Nel caso di specie la parte aveva disconosciuto, ai sensi dell’art. 214 c.p.c., la firma dalla stessa apposta sulla polizza fideiussoria, la cui autenticità è stata poi accertata nel corso del giudizio a mezzo di Consulenza Tecnica d’Ufficio.

Il Giudice, soffermandosi in particolar modo sulla natura sanzionatoria del terzo comma dell’art. 96 c.p.c., con la suddetta pronuncia sostiene che il disconoscimento di una sottoscrizione, in realtà autentica, rientra tra le ipotesi di “responsabilità aggravata” ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c.

Con la sentenza in commento viene distinta, in primo luogo, la condanna di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c., per la cosiddetta “lite temeraria” e la condanna di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., per “responsabilità aggravata”.

Il primo comma dell’art. 96 c.p.c. prevede per l’applicazione della norma, e quindi per l’identificazione della cosiddetta “lite temeraria”, i seguenti requisiti:

– che sia intervenuta una domanda di parte, al fine di ottenere un risarcimento;

– che la richiesta riguardi una condotta caratterizzata da mala fede o da colpa grave (nella misura indicata dall’art. 96, comma 1, c.p.c.);

– che tale condotta abbia recato un danno.

E’, pertanto, chiara la natura risarcitoria della previsione di cui al primo comma, a differenza della condanna di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., che può avvenire anche d’ufficio e che non presenta elementi che riconducano ad una funzione di tipo risarcitorio.

Nella sentenza viene richiamato il filone maggioritario di interpretazione secondo il quale l’art. 96, comma 3, c.p.c. si configura quale norma sanzionatoria “con la quale il giudice (…) può procedere dunque a condanna, prescindendo da danni effettivi”.

Secondo tale orientamento, maggiormente condiviso, ai fini dell’applicazione dell’art. 96, comma 3, c.p.c. non è necessario né che sia intervenuta una domanda di parte né che, mediante la condotta caratterizzata da mala fede o da colpa grave, sia stato provocato un danno. Si delinea, pertanto, una norma di natura prettamente sanzionatoria.

Il Tribunale di Bologna aderisce all’orientamento sopra descritto, discostandosi, invece da quello minoritario che escluderebbe la necessità della presenza del requisito del dolo o della colpa grave. Nella sentenza in commento si sostiene che “pur nel silenzio della norma, ragionare diversamente renderebbe impossibile distinguere la (ordinaria) condanna alle spese dalla condanna di cui al terzo comma dell’art. 96 c.p.c.; il che renderebbe casuale e sostanzialmente privo di presupposti il caso di responsabilità aggravata”.

La sentenza, pertanto, conferma l’applicazione della suddetta norma alle condotte caratterizzate da dolo e colpa grave che determinano rallentamenti del processo e, di conseguenza, un suo “abuso”. Nel caso di specie, infatti, viene applicato l’art. 96, comma 3, c.p.c. al disconoscimento di una sottoscrizione della quale poi è stata giudizialmente accertata l’autenticità.

Secondo il Tribunale di Bologna l’art. 96, comma 3, c.p.c. deve essere applicato sia nel caso che il disconoscimento sia consapevole (dolo), sia nel caso in cui il disconoscimento sia dovuto ad “amnesia” o “mancato controllo” (colpa grave).

Il Giudice bolognese, in riferimento alla prima ipotesi, sostiene che la parte che disconosca consapevolmente la propria sottoscrizione agisca con dolo e che “il rapporto con la sottoscrizione (propria ed autentica) non possa essere disconosciuto”, nonostante, come si richiama in sentenza, sia tutt’ora in corso un dibattito sull’inclusione o meno tra i doveri di lealtà, di cui all’art. 88 c.p.c., dell’obbligo della parte di dire la verità.

Il Giudice si esprime poi in merito all’ipotesi di colpa grave, sostenendo che è “elementare principio di auto-responsabilità, prima di disconoscere un documento, verificarne la veridicità”. Pertanto, se il disconoscimento è conseguenza di amnesia o di mancato controllo è indubbiamente caratterizzato da colpa grave.

Il disconoscimento della firma ritenuta genuina è, peraltro, riconosciuto in maniera unanime dal Tribunale di Bologna quale condotta tesa a realizzare un abuso dello strumento processuale e, per questo motivo, suscettibile di essere sottoposta alla disciplina di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c.

La condanna ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. per “responsabilità aggravata” è affidata, quindi, alla discrezionalità del giudice, non occorrendo la richiesta della parte interessata, a condizione che si sia verificata una condotta di grave negligenza o di malafede processuale dell’altra parte.

Parte opponente, nel caso di specie, è stata condannata al pagamento di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., mediante la liquidazione di un multiplo delle spese di lite “ordinarie”, pari ad euro 10.000,00.

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Con riferimento alla responsabilità aggravata di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. si è espressa anche la Corte Costituzionale, che, con la pronuncia n. 152/2016, giudica sulla questione di illegittimità costituzionale del suddetto istituto giuridico nei confronti degli artt. 3, 24 e 111 Cost. La Corte in primis dichiara non fondata la questione di legittimità e, in secondo luogo, si sofferma precisando la natura sanzionatoria di tale istituto giuridico, richiamando l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 3003 emessa l’11 febbraio 2014. Sostiene “che la correlativa funzione non sia, pertanto, quella risarcitoria – del danno subito (e comprovato) dalla parte vittoriosa, (funzione questa) assolta dalle disposizioni di cui ai primi due commi dello stesso art. 96 cod. proc. civ.– bensì quella, ulteriore, di «presidiare il processo civile dal possibile abuso processuale [e] di soddisfare l’interesse pubblico al buon andamento della giurisdizione». Atteso che non potrebbe contestarsi che il «promuovere azioni (o resistervi con difese) manifestamente emulative, vada a costituire una massa di giudizi del tutto evitabili, addirittura indebiti se riguardati nell’ottica del giusto processo e della sua ragionevole durata, che costituiscono a loro volta un potente fattore di rallentamento delle altre controversie non altrettanto banalmente caratterizzate».” A tale pronuncia si sono esplicitamente allineate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nella sentenza n. 16601 del 5.7.2017, sostenendo la finalità sanzionatoria di tale disposizione.

Sulla stessa linea si è, infine, posta la Corte di Cassazione sez. VI, che, con la più recente sentenza n. 4136 emessa il 21.2.2018, si è pronunciata sia sulla natura punitiva della sanzione applicata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. sia su un motivo di ricorso che sosteneva l’illegittimità costituzionale dell’art. 96, comma 3, c.p.c., perché in contrasto con l’art. 24 della Costituzione, che sancisce il diritto all’azione.

La Corte si esprime affermando l’infondatezza di tale questione e ritenendo che “non si tratta, evidentemente, di una violazione del diritto all’azione sancito dall’art. 24 Cost bensì dell’applicazione di una norma che il legislatore ha introdotto nel 2009 come presidio dell’abuso dei diritti processuali, abuso che per sua natura aggrava il sistema impedendo pertanto quella ragionevole sua celerità che esige l’art. 111 c.p.c, comma 2, essendo il processo uno strumento collettivo che non può essere utilizzato, quindi, con modalità abusive che contrastano l’obbligo di solidarietà imposto dall’art. 2 Cost., ovvero aggravandolo con cause in cui il diritto processuale viene abusato ma la cui presenza inevitabilmente rallenta gli ulteriori processi compresenti in quel momento nel c.d. servizio giustizia”.

La sentenza n. 765/2018 emessa dal Tribunale di Bologna, pronunciandosi sulla natura sanzionatoria dell’art. 96, comma 3, c.p.c. e sulla sua funzione di tutela dagli abusi dello strumento processuale, è, pertanto, in linea con la posizione assunta in merito sia dalla Corte Costituzionale sia dalla Corte di Cassazione.

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Di grande rilevanza, in merito alla responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 comma 3 c.p.c., è l’ordinanza n. 15209 emessa il 5 aprile – 12 giugno 2018 dalla Suprema Corte di Cassazione.

La suddetta ordinanza, nel richiamare le pronunce n. 27623/2017 e n. 16601/2017 della medesima Corte di Cassazione, sostiene da un lato l’autonomia dell’ipotesi di  responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c. rispetto a quelle di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo, e dall’altro la sua natura prettamente sanzionatoria.

La pronuncia in questione include, inoltre, una nuova importante precisazione con riferimento al procedimento in Cassazione, secondo la quale “ai fini della condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, può costituire abuso del diritto all’impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata, o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia, oppure fondato sulla deduzione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ove sia applicabile, ratione temporis, l’art. 348 ter c.p.c., u.c. che ne esclude la invocabilità.”

La Suprema Corte sostiene, pertanto, che in tali ipotesi si integri un utilizzo viziato del sistema giurisdizionale “non già finalizzato alla tutela dei diritti ed alla risposta alle istanze di giustizia, ma destinato soltanto ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, a ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione”.

Ciò in applicazione dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (volto garantire l’accesso alla giustizia e alla tutela dei diritti) e dell’art. 111 della Costituzione (teso a garantire la ragionevole durata del processo).

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Si segnala, infine, che con riferimento alla liquidazione ex art. 96, comma 3, c.p.c. è recentemente intervenuto l’Osservatorio sulla Giustizia civile del Tribunale di Milano con la pubblicazione delle nuove “Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psico-fisica e dalla perdita – grave lesione del rapporto parentale”.

L’attività di analisi svolta dall’Osservatorio sulla Giustizia civile del Tribunale di Milano ha riscontrato che il parametro prevalentemente utilizzato dalla giurisprudenza per la liquidazione delle spese di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. è quello dei “compensi liquidati”, ossia in un importo “all’incirca pari al compenso defensionale, riducibile sino alla metà del compenso ed aumentabile della metà del compenso in ragione delle circostanze specifiche dell’abuso”.

L’Osservatorio della Giustizia Civile del Tribunale di Milano specifica, inoltre, quali indici di graduazione della liquidazione ex art. 96 c.p.c., indicati dalla giurisprudenza, il valore della causa, la durata del processo, il numero delle parti vittoriose (abusate da lite temeraria), l’intensità dell’elemento soggettivo dell’abusante, l’affaticamento derivato ala parte che ha subito il processo temerario.

Pubblicato il 16 luglio 2018