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Undicesimo Articolo – IL COLLEZIONISTA DEVE PRESTARE ATTENZIONE ALLA FREQUENZA DELLE SUE VENDITE Le definizioni dottrinali di collezionista, speculatore occasionale e mercante d’arte, fatte proprie anche dalla Suprema Corte

La Cassazione, con l’ordinanza n. 1603/2024, ha adottato le categorie di origine dottrinale di mercante d’arte, speculatore occasionale e mero collezionista. La distinzione dottrinale è stata quindi enunciata anche dalla giurisprudenza di legittimità: è da qualificarsi come mercante di opere d’arte colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio anche in maniera non organizzata imprenditorialmente, col fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento del valore delle medesime opere; è speculatore occasionale chi acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile; è mero collezionista, chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderla generando una plusvalenza, avendo interesse non tanto per il valore economico della res quanto per quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre (ndr: e rivende l’opera soltanto sporadicamente al fine di rinnovare la propria collezione).

La Cassazione ha poi precisato che il collezionista speculatore occasionale che vende con continuità le opere d’arte rischia di essere qualificato come un imprenditore dell’arte, con tutte ciò che ne consegue in tema di obblighi civilistici e fiscali.

Nel caso di specie, l’amministrazione finanziaria aveva qualificato come imprenditore soggetto a reddito d’impresa, il collezionista che aveva ceduto alcune opere d’arte della sua collezione pur non essendo la sua attività un’attività imprenditoriale da punto di vista civilistico.

Il collezionista  aveva eccepito di non aver mai svolto l’attività di compravendita di opere d’arte avendo agito sempre da collezionista privato: le vendite erano stato solo il frutto della dismissione del suo patrimonio e in ogni caso non sussisteva alcuna autonoma organizzazione di mezzi per svolgere la suddetta attività.

La ricostruzione del contribuente però non ha incontrato il favore dei giudici della Cassazione.

La Suprema corte, con l’ordinanza n. 1603/2024, ha affermato che non vi è coincidenza fra la definizione di imprenditore secondo la legislazione fiscale e secondo quella civilistica: l’art. 2082 c.c. considera imprenditore chi svolge un’attività economica organizzata in modo professionale, mentre per la normativa fiscale ampia la definizione e ritiene sufficiente il mero esercizio professionale e abituale, ancorché non esclusivo, delle attività di cui all’art. 2195 c.c. per tassare il collezionista che effettua vendite troppo ravvicinate delle sue opere come un commerciante di arte, anche senza il requisito dell’organizzazione o lo svolgimento di quella attività in forma d’impresa.

La frequenza delle vendite è indice presuntivo di abitualità e quindi chi vende con continuità le proprie opere d’arte sarà considerato come un imprenditore che svolge attività di commercio di opere d’arte, anche in assenza di tutti gli elementi richiesti dalla normativa civilistica d’impresa. Il requisito dell’abitualità, di cui all’art. 55 TUIR in tema di reddito d’impresa, è stato assunto – e circostanziato – dalla Cassazione come discrimine su cui fondare la diversa qualificazione ed ha ritenuto sussistere un’attività commerciale in ragione di elementi idonei a dimostrare la sistematicità e la professionalità dell’attività d’impresa da parte del collezionista (numero delle transazioni effettuate, importi elevati, quantitativo di soggetti con cui sono stati intrattenuti rapporti, varietà della tipologia di beni alienati).

L’ordinanza richiama e fa proprio quell’orientamento secondo cui è irrilevante che il corrispettivo sia stato capitalizzato in beni e non in denaro perché si realizza in ogni caso un arricchimento del patrimonio personale del soggetto (Cass. n. 8196/2008).

Pertanto, il collezionista che intende aggiornare la propria collezione, dovrà calibrare la frequenza delle sue dismissioni, perché la Cassazione considera le cessioni di opere d’arte troppo frequenti come generative di un reddito d’impresa e non riconosce alcun rilievo alla circostanza che la finalità di tali vendite sia l’acquisto di altre opere d’arte e quindi il miglioramento e il maggior pregio della collezione stessa.