“In un contesto connotato dall’assoluta novità della patologia pandemica e dalla drammatica emergenza che per un certo tempo ha prostrato l’intero Servizio Sanitario Nazionale, può ben sostenersi, a parere della giudicante, che la gestione di un “Paziente sospetto Covid” e la cura di un “Paziente Covid” implichino prestazioni implicanti “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, con l’effetto che, in applicazione dell’esenzione di cui all’art. 2236 c.c., i medici ospedalieri intervenuti nella fattispecie potrebbe rispondere dei danni poi verificatisi […] solo in caso di dolo o colpa grave”.
Lo ha stabilito la Sezione I del Tribunale di Vicenza con la sentenza n. 262 del 2 febbraio 2023, che si è pronunciata su un caso di risarcimento del danno per responsabilità di un’Azienda sanitaria, alla quale viene contestato il mancato rispetto dei protocolli medico-sanitari emanati in tema di prevenzione e contagio da Covid-19 (tra cui, per quanto rileva nella fattispecie, quelle dettate dalla Circolare del 22.02.2020 del Ministero della Salute, contenente le norme tecniche da adottare nelle strutture sanitarie per la prevenzione e gestione dell’epidemia).
Il caso di specie riguarda il decesso di una paziente a seguito di alcune vicende mediche piuttosto articolate, riassumibili nel seguente modo: dopo un primo ricovero ospedaliero a causa di sintomi assimilabili a quelli da Covid-19 (avvenuto in data 01.04.2020), la paziente viene dimessa per mancato riscontro della positività al virus (accertato con due tamponi molecolari effettuati, rispettivamente, in data 02.04.2020 e 06.04.2020) e per un sensibile miglioramento delle condizioni fisiche; pochi giorni dopo, la signora viene nuovamente ricoverata presso la stessa struttura e questa volta viene anche accertata la sua positività al Covid-19 (tramite tampone molecolare datato 15.04.2020), con annesso peggioramento del quadro clinico e decesso il giorno 20.04.2020.
Il giudice vicentino si è occupato di una vicenda risalente ai primi mesi della pandemia ed incentrata su uno degli aspetti più discussi dell’intera gestione sanitaria del virus su tutto il territorio nazionale, ovvero il trattamento dei pazienti affetti o presumibilmente affetti da Covid-19.
Questo preliminare aspetto è fondamentale per comprendere appieno la decisione assunta dal Tribunale, in quanto il magistrato giudicante si è calato completamente nella situazione di emergenza che imperversava nei primi giorni di diffusione del contagio, tenendo soprattutto in considerazione l’evidente novità del fenomeno e l’ingente carico di lavoro che aveva soffocato il Servizio Sanitario Nazionale in poche settimane.
Nella motivazione della sentenza il Tribunale ha fatto ricorso, in prima istanza, al criterio del c.d. id quod plerumque accidit per verificare se il contagio della paziente fosse avvenuto prima o durante il ricovero nella struttura ospedaliera: secondo il giudice di primo grado le prove fornite dalla parte attrice non sono sufficienti per dimostrare che all’interno dell’Azienda sanitaria non sono stati rispettati i protocolli medico-sanitari in tema di prevenzione e contagio da Covid-19, anzi, la parte convenuta è riuscita a provare il contrario, fornendo tutta una serie di elementi che evidenziano l’adeguata formazione del personale medico e ausiliario per affrontare l’emergenza sanitaria, l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e il rispetto delle linee guida per il contenimento dell’epidemia. Addirittura, si legge nella sentenza, “può dirsi più probabile che il contagio sia avvenuto appunto al di fuori dell’ospedale, atteso che non si ha contezza alcuna circa l’adozione pregressa da parte della paziente e dei suoi più frequenti contatti (tra cui l’odierna attrice) dei dispositivi di protezione individuale (mascherine e guanti in lattice) e degli accorgimenti sanitari già all’epoca raccomandati (sanificazione frequente delle mani e degli ambienti domestici)”.
Nella seconda parte della motivazione, invece, il giudice approfondisce ulteriormente l’elemento della responsabilità dei medici ospedalieri, andando a circoscrivere in modo accurato il fulcro normativo che deve essere rispettato quando si cerca di provare la condotta lesiva del personale sanitario. L’attenzione del Tribunale ricade, infatti, sull’art. 2236 c.c., il quale dispone che “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Posto che il contesto in cui si svolge la vicenda in oggetto è particolarmente grave, poiché connotato “dall’assoluta novità della patologia pandemica e dalla drammatica emergenza che per un certo tempo ha prostrato l’intero Servizio Sanitario Nazionale”, la gestione di un “Paziente sospetto Covid” e la cura di un “Paziente Covid” non possono essere equiparate a quelle adottate per patologie affini, ragion per cui, secondo il giudice di prime cure, queste condizioni provocano dei risvolti anche sul piano giuridico, tali da escludere la responsabilità dei medici ospedalieri per tutte quelle ipotesi che esorbitano da una condotta dolosa o per colpa grave.
Il Tribunale valorizza le condizioni straordinarie in cui doveva operare il personale medico-sanitario nella prima fase della pandemia, attribuendo una particolare importanza alle prove dedotte dalla parte convenuta circa il rispetto dei protocolli e delle prescrizioni normative al tempo in vigore, evitando di generare un sovraccarico di responsabilità in capo ai medici ospedalieri. La ratio legis sottesa all’art. 2236 c.c. è, infatti, perfettamente coerente con questa ricostruzione, perché pone una limitazione alla responsabilità del professionista laddove l’imperizia della sua condotta sia dipesa dalla complessità o dalla novità dell’opera da realizzare.
Al netto di quanto stabilito dal Tribunale di Vicenza, il ricorso ad una siffatta esimente sembra essere circoscrivibile, ad opinione di chi scrive, esclusivamente a quei mesi iniziali del periodo pandemico, in cui le Strutture Sanitarie Nazionali erano state colte totalmente alla sprovvista da un fenomeno di portata mondiale e il legislatore sia Nazionale che Regionale cercava di adottare le misure sanitarie che all’epoca apparivano adeguate per fronteggiare l’emergenza. Difficilmente un ragionamento di questo tipo potrà essere esteso a quelle vicende sanitarie che hanno avuto luogo nelle successive ondate pandemiche.
A tal proposito, si segnale che la pronuncia è di pochi mesi successiva ad un precedente accertamento di merito (il primo per quanto consta), svoltosi innanzi al Tribunale di Campobasso, che, invece, ha ritenuto la struttura sanitaria responsabile per non aver impedito la diffusione del contagio intraospedaliero, con conseguente decesso del paziente che ivi aveva contratto il Covid-19. I fatti risalgono, tuttavia, al gennaio 2021 (la c.d. seconda ondata).