Il Tribunale di Ferrara con sentenza n. 146/2021 del 25.02.2021, resa in una causa civile di opposizione a decreto ingiuntivo, ha motivato, con specifici richiami giurisprudenziali di legittimità e di merito, quali devono essere i presupposti per liquidare il danno per lite temeraria, indicandone anche i parametri di quantificazione.
Per quanto attiene alla domanda risarcitoria formulata ai sensi dell’art. 96, I comma c.p.c. secondo cui “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave il giudice su istanza dell’altra parte la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida anche d’ufficio nella sentenza”, il Tribunale Estense condivide quell’orientamento della Suprema Corte che, in ossequio al principio dispositivo ed alla stregua dei criteri ordinari di distribuzione sanciti dall’art. 2697 c.c., richiede al soggetto leso la prova del danno derivante dall’illecito compiuto dal danneggiante (cfr. Cass., 9 settembre 2004, n. 18169; Cass., 18 marzo 2002, n. 3941: “(…) la liquidazione di tale danno, ancorché possa effettuarsi anche d’ufficio, postula pur sempre la prova sia dell’an sia del “quantum” o almeno la desumibilità di tali elementi dagli atti di causa”).
Per quanto attiene, invece, alla domandata risarcitoria formulata ai sensi dell’art. 96, III comma c.p.c., secondo cui “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”, il Tribunale di Ferrara osserva quanto segue.
Circa la natura giuridica dell’istituto – introdotto dal legislatore con L. 18 giugno 2009, n. 69 – si sono prospettate tre diverse soluzioni: una prettamente risarcitoria, secondo la quale il fine della norma sarebbe riparare la parte vittoriosa del danno subito in conseguenza dell’illecito comportamento processuale tenuto dall’altra; una puramente sanzionatoria, secondo la quale il fine dell’istituto sarebbe reprimere condotte processuali aggravate, infliggendo una pena pecuniaria – ulteriore rispetto alle spese di lite nascenti dalla soccombenza – al litigante temerario, sì da salvaguardare l’interesse pubblico all’impiego corretto e non distorto del processo civile; una mista, secondo la quale la ratio della norma consisterebbe non solo nel indennizzare la parte vittoriosa del danno illecitamente subito, ma anche nel sanzionare l’abuso dello strumento processuale.
La mancanza di uniformità interpretativa generata in merito alla funzione assolta dalla disposizione in commento pare superata dalla recente pronuncia – a cui il Giudice ritiene di doversi conformare – della Corte Cost. n. 139/2019, che ne riconosce una funzione mista.
In ogni caso l’art. 96, III comma c.p.c. presuppone, ai fini dell’accoglimento della domanda, la sussistenza di un duplice presupposto: uno oggettivo, dato dalla soccombenza totale e concreta della parte ovvero dalla sua integrale condanna alle spese di lite, ogni qual volta ciò sia dipeso da un abuso del processo quando il sistema di giustizia sia stato avviato o rallentato da una condotta abusiva o da una condotta apparentemente rientrante nella sfera di esercizio del diritto di difesa, ma in realtà priva di ragioni fondanti); uno soggettivo, rappresentato, secondo l’opinione maggioritaria, dalla mala fede o dalla colpa grave in capo alla parte soccombente nell’agire o resistere in giudizio (cfr. Cass. 9 dicembre 2019, n. 32090: “l’ipotesi di condanna ex art. 96 terzo comma c.p.c. richiede un duplice presupposto: quello positivo della soccombenza totale della parte e quello negativo della non compensazione, seppure parziale delle spese di lite. Pertanto, deve escludersi la possibilità di condanna nei confronti della parte che risulti totalmente o parzialmente vittoriosa ovvero, nel caso di soccombenza totale, quando vi sia stata compensazione totale o parziale delle spese di lite”; cfr. Cass., S.U., 13 settembre 2018 n. 22405: “la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della “potestas agendi” con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte. Ne consegue che la condanna, al pagamento della somma equitativamente determinata, non richiede né la domanda di parte né la prova del danno, essendo tuttavia necessario l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede (consapevolezza dell’infondatezza della domanda) o della colpa grave (per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza) venendo in considerazione, a titolo esemplificativo, la pretestuosità dell’iniziativa giudiziaria per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, la manifesta inconsistenza giuridica delle censure in sede di gravame ovvero la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione”; Cass., 21 novembre 2017, n. 27623: “la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., applicabile d’ufficio in tutti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c. e con queste cumulabile, volta – con finalità deflattive del contenzioso – alla repressione dell’abuso dello strumento processuale; la sua applicazione, pertanto, non richiede, quale elemento costitutivo della fattispecie, il riscontro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di “abuso del processo”, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente”; cfr. Trib. Milano, 9 gennaio 2020, reperibile in www.pluris.it: “la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione”).
In particolare, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo, la giurisprudenza di merito ha disposto la condanna ai sensi dell’art. 96, III comma c.p.c., quando la condotta processuale del soccombente sia stata tenuta al fine di dilazionare ingiustificatamente gli effetti del titolo esecutivo (cfr., ex multis, Trib. Monza, 2 marzo 2020, n. 487 reperibile in www.dejure.it: “in tema di responsabilità processuale aggravata, va disposta la condanna ex art. 96, co. 3 c.p.c., qualora risulti che la parte abbia proposto opposizione a decreto ingiuntivo con allegazioni manifestamente generiche ed inconsistenti, tenendo una tipica condotta processuale temeraria, quantomeno colposamente gravatoria e pretestuosa, avendo agito in giudizio esponendo circostanze risultate inveritiere e tesi del tutto infondate; a differenza dell’ipotesi tradizionale di responsabilità aggravata prevista dall’art. 96, comma 1, c.p.c., la condanna ai sensi del co. 3 può intervenire d’ufficio e la quantificazione del pregiudizio avviene secondo equità, senza che il danno debba essere provato”, nonché Trib. Udine, 22 agosto 2018, n. 1039 reperibile in www.dejure.it: “nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la temerarietà dell’opposizione, consapevolmente finalizzata soltanto a procrastinare il consolidarsi del titolo esecutivo giudiziale (avvenuta con un certo successo), impone la condanna d’ufficio dell’attrice-opponente al pagamento di un’ulteriore somma ai sensi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c., liquidata equitativamente in misura pari a quella dei compensi di avvocato liquidati a favore della parte vittoriosa”).
Ai fini della quantificazione del danno, con la sentenza in esame il Tribunale di Ferrara ritiene opportuno conformarsi all’indirizzo della Suprema Corte, che riconduce il quantum alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa (cfr. Cass., 20 novembre 2020, n. 26435: “in tema di responsabilità processuale aggravata, l’art. 96, comma 3, c.p.c., nel disporre che il soccombente può essere condannato a pagare alla controparte una “somma equitativamente determinata”, non fissa alcun limite quantitativo per la condanna alle spese della parte soccombente, sicché il giudice, nel rispetto del criterio equitativo e del principio di ragionevolezza, può quantificare detta somma sulla base dell’importo delle spese processuali (o di un loro multiplo) o anche del valore della controversia”; Cass., 4 luglio 2019, n. 17902: “in tema di responsabilità aggravata, la determinazione equitativa della somma dovuta dal soccombente alla controparte in caso di lite temeraria non può essere parametrata all’indennizzo di cui alla legge n. 89 del 2001, potendo essere calibrata su una frazione o un multiplo delle spese di lite con l’unico limite della ragionevolezza”).
Si segnala, infine, l’orientamento giurisprudenziale del Tribunale di Rimini che ritiene sussistere il presupposto per l’applicazione del terzo comma dell’art. 96 c.p.c. quando “il tenore delle difese svolte, contrarie alle evidenze documentali in atti e del tutto generiche, manifesta un uso distorto della risorsa giustizia (…) in base ai principi che regolano il processo civile, le eccezioni, sotto il profilo della deduzione, debbono avere quel grado di precisione che consenta di dare ingresso ad un mezzo di prova puntuale tale da poter confermare la circostanza dedotta. Il carattere circostanziato delle eccezioni sollevate ai sensi dell’art. 2697 co. 2 c.p.c. trova il suo fondamento nell’onere di contestazione specifica imposto dall’art. 115 c.p.c., onere, per l’appunto, per le parti e canone ermeneutico per la decisione del giudice” (Tribunale di Rimini sentenza n. 462/2020).
Pubblicato il 17 marzo 2021