L’ingresso di monete archeologiche in Italia è regolato dall’art. 826 c.c., in materia di patrimonio indisponibile dello Stato, e dalla normativa contenuta nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (anche “CBC”) all’art. 72, con riferimento all’importazione nel territorio nazionale, e all’art. 91, in relazione all’appartenenza allo Stato.
In giurisprudenza si contrappongono due orientamenti interpretativi di questo quadro normativo.
Secondo un primo orientamento più restrittivo, le monete antiche costituiscono cose di interesse archeologico ascrivibili al patrimonio dello Stato ai sensi degli articoli 826 c.c. e 91 del CBC. Tale qualificazione, in caso di rivendica da parte dello Stato, imporrebbe al possessore o detentore delle monete antiche di provare la legittimità del titolo di appartenenza. Senza tale prova, si presume la proprietà dello Stato, stante l’eccezionalità delle ipotesi di dominio privato delle cose archeologiche (Cass. pen. n. 3786/2017). Secondo questo orientamento, di fronte alla rivendicazione delle monete antiche da parte dello Stato, si realizza un’inversione dell’onere della prova in capo al privato cittadino, che deve dimostrare la lecita provenienza dei beni fino a giungere alla data anteriore al 1909 (data di entrata in vigore della legge n. 364/1909, la prima legge che ha rivendicato allo Stato la proprietà delle cose archeologiche rinvenute nel sottosuolo) ovvero la sussistenza di uno degli speciali titoli di proprietà privata individuati dalla legislazione speciale (beni archeologici alienati o permutati dallo Stato ex artt. 12, 54 e 56 CBC; beni archeologici trasferiti a titolo di indennizzo o premio ex artt. 58 e 92 CBC.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale più liberale, la presunzione di appartenenza allo Stato delle cose mobili di interesse archeologico, quali le monete antiche, possedute o detenute dai privati, confliggerebbe con fondamentali valori costituzionali della proprietà privata. Secondo tale orientamento appare irragionevole e lesivo della proprietà privata pretendere la prova (diabolica) dell’acquisto in epoca anteriore al 1909 ovvero in virtù di uno degli speciali titoli previsti dalla legge, considerato altresì che le monete rientrano nella categoria delle cose mobili che nel tempo hanno circolato manualmente. Ritenere inoltre che, per i beni archeologici, la proprietà privata è riconosciuta come tale solo se viene provato che essa risale ad epoca anteriore al 1909, “violerebbe l’art. 42 Cost., in quanto ablativo delle cose mobili di proprietà privata per la cui legittimazione richiederebbe una prova impossibile, ed altresì l’art. 24 Cost. perché, quando il possesso costituisce un addebito, la gravità dell’onere probatorio imposto renderebbe impossibile il diritto di difesa. Il sistema, pertanto, letto in aderenza ai precetti costituzionali, non consente che venga posta a carico del cittadino la prova della legittimità del possesso di oggetti archeologici, ma è l’accusa che deve dare la prova della illegittimità del possesso.” (Cass. pen. n. 7131/1999)
Questo orientamento più liberale in tema di onere probatorio e forme di relativo assolvimento è stato recentemente confermato anche con riferimento alla figura del collezionista di monete antiche (Cass. pen. n. 45833/2021), che ha sottolineato la necessità di limitare le conseguenze estreme dell’inversione dell’onere della prova in capo al privato, in considerazione di due precise osservazioni:
– la moneta è un bene seriale già in larga misura presente nelle pubbliche raccolte; per tale motivo l’art. 10 CBC assoggetta le monete al regime dei beni culturali soltanto se aventi carattere di rarità e pregio o in eccezionale interesse;
– le collezioni numismatiche più importanti finiscono quasi sempre per confluire nei musei arricchendo il patrimonio nazionale.
Non si può non rilevare il rischio che un orientamento così liberale possa incentivare ricerche archeologiche illecite e il commercio illegale.
Sul punto si è espresso il Ministero della Cultura con il parere dell’Ufficio Legislativo del 27 giugno 2023, precisando che, in coerenza con i principi di proporzionalità e ragionevolezza, non si debba pretendere dai privati collezionisti e professionisti numismatici che acquistano all’estero, di fornire la prova della legittima provenienza delle monete acquistate sin da epoca anteriore al 1909, ma sia sufficiente, a fronte della richiesta di rilascio del certificato di avvenuta spedizione o di avvenuta importazione di monete antiche, esibire la documentazione emessa dai paesi di provenienza degli oggetti stessi attestante la regolare circolazione internazionale indicata dal DM 246/2018 attuativo dell’art. 72, co. 4, CBC.
L’interessato, che richiederà il certificato di avvenuta importazione sul territorio nazionale ex art. 72 CBC, fornirà la certificazione senza dover provare la lecita provenienza dei beni fino a giungere alla data anteriore al 1909, fermi e impregiudicati i controlli sulla lecita detenzione del materiale numismatico qualora vi siano dubbi sulla validità e congruità della documentazione esibita.
Pare dunque che il Ministero della Cultura abbia in tal modo dato atto che richiedere la prova dell’acquisto prima del 1909 di monete importate in Italia possa scoraggiare l’acquisto e l’ingresso in Italia di beni di interesse numismatico destinati a confluire nel tempo nelle pubbliche raccolte, con l’effetto di impoverire, e non arricchire, il patrimonio nazionale.