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Il decalogo “San Martino bis”: adesso tutto è più chiaro?

Con 10 sentenze pubblicate l’11 novembre 2019 (trattasi delle sentenze dalla n. 28985 alla n. 28994), tutte – salvo una – aventi ad oggetto ipotesi di risarcimento danni per “mala sanità”, la terza sezione della Corte di Cassazione si è occupata di fornire chiarimenti in merito ad una serie di aspetti incerti nell’applicazione delle norme che disciplinano la responsabilità sanitaria (quali a titolo esemplificativo: identificazione del danno da perdita di chance; criteri per la liquidazione del danno differenziale; rivalsa della struttura sanitaria nei confronti del medico).

Le richiamate decisioni, che confermano il particolare interesse degli operatori giuridici per la materia della responsabilità sanitaria nonchè la grande rilevanza alla stessa riconosciuta, amplificano il vuoto legislativo imputabile alla mancanza dei decreti attuativi della legge n. 24/2017.

i) Sentenza n. 28985/19  sulla violazione dell’obbligo di informare.

Con la sentenza n. 28985/19 la Corte di Cassazione ha provveduto ad identificare i danni derivanti dal mancato adempimento da parte del medico del dovere di informare il paziente.

In particolare, la terza sezione della Corte di Cassazione, manifestando la propria volontà di dare seguito, implementandola e perfezionandola, all’elaborazione giurisprudenziale formatasi in materia, rileva preliminarmente come la violazione dell’obbligo del consenso informato (che trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 Cost.) possa astrattamente provocare due diverse tipologie di danno:
a) una danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente, sul quale grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato avrebbe rifiutato di sottoporsi all’intervento, onde non subirne le pregiudizievoli conseguenze;
b) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione, rilevabile se, a causa dell’omessa informazione, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale (per la cui risarcibilità, secondo il principio espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione con le sentenze n. 26972 e n. 26975 del 2008, è necessario l’obiettivo superamento della soglia della serietà/gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Di conseguenza, prosegue la Corte, dall’omessa e/o insufficiente informazione, possono scaturire le seguenti situazioni:
a) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento, che ha cagionato un danno alla salute imputabile alla condotta colposa del medico, a cui il paziente anche se informato avrebbe comunque deciso di sottoporsi nelle medesime condizioni. In tal caso il risarcimento sarà limitato al solo danno (morale e relazionale) alla salute subito dal paziente;
b) omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento, che ha cagionato un danno alla salute imputabile alla condotta colposa del medico, a cui il paziente anche se informato avrebbe deciso di non sottoporsi. In tal caso, il risarcimento sarà dovuto anche per il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente;
c) omessa informazione in relazione ad un intervento, che ha cagionato un danno alla salute, inteso quale mero aggravamento delle condizioni preesistenti, non imputabile alla condotta del medico, a cui il paziente anche se informato avrebbe comunque deciso di non sottoporsi. In tal caso, andrà liquidato, sul paino meramente equitativo, il danno relativo alla violazione del diritto all’autodeterminazione, mentre la lesione della salute, da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, in quanto, in presenza di adeguata informazione, il paziente non si sarebbe sottoposto all’intervento, andrà valutata in relazione all’eventuale “differenza” tra il maggior danno biologico conseguente all’intervento ed il preesistente stato patologico invalidante del soggetto;
d) omessa informazione in relazione ad un intervento che non ha provocato danni al paziente ed al quale quest’ultimo avrebbe comunque deciso di sottoporsi. In tal caso alcun danno andrà riconosciuto al paziente;
e) omessa/inadeguata diagnosi che non ha cagionato un danno alla salute del paziente ma che tuttavia gli ha impedito di accedere ad accertamenti più attendibili ed accurati. In tal caso il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione sarà risarcibile se il paziente allega che, dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione, gli sono comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente (salva la possibilità di dimostrata contestazione della controparte).

Pertanto, alla luce della riportata analisi delle diverse fattispecie che possono originare dall’omessa/inadeguata informazione, il Supremo Collegio nella sentenza n. 28985/19 enuncia il seguente principio di diritto:
“Il risarcimento del danno da lesione del diritto di autodeterminazione che si sia verificato per le non imprevedibili conseguenze di un atto terapeutico, pur necessario ed anche se eseguito “secundum legem artis”, ma tuttavia effettuato senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli e dunque senza un consenso consapevolmente prestato, dovrà conseguire alla allegazione del relativo pregiudizio ad opera del paziente, riverberando il rifiuto del consenso alla pratica terapeutica sul piano della causalità giuridica ex art. 1223 c..c e cioè della relazione tra evento lesivo del diritto alla autodeterminazione – perfezionatosi con la condotta omissiva violativo dell’obbligo informativo preventivo – e conseguenza pregiudizievoli che da quello derivano secondo un nesso di regolarità causale.
Il paziente che alleghi l’altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che:
a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico;
b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicchè la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. “vicinanza della prova”;
c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell’intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all’ “id quod plerumque accidit”.
Tale prova potrà essere fornita con ogni mezzo, ivi compresi il notorio, le massime di esperienza, le presunzioni, queste ultime fondate, in un rapporto di proporzionalità diretta, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione, non potendosi configurare, “ipso facto”, un danno risarcibile con riferimento alla sola omessa informazione, attesa l’impredicabilità di danni “in re ipsa” nell’attuale sistema della responsabilità civile”.

ii) Sentenza n. 28986/19 (2) sul risarcimento del danno “differenziale”.

La sentenza n. 28986/19 risulta di particolare interesse in quanto la Corte di Cassazione affronta e risolve il problema dell’identificazione del corretto metodo da utilizzare per accertare e liquidare il danno subito da un soggetto le cui condizioni fisiche o psichiche risultano ante sinistro già compromesse a causa di una malattia o di una menomazione preesistente.

Partendo dalla premessa che la lesione dell’integrità psicofisica rappresenta unicamente il presupposto da cui origina il danno alla salute, della cui esistenza può parlarsi solo in presenza di una menomazione (suscettibile di accertamento medico – legale, provocata da detta lesione e che abbia a sua volta cagionato una forzosa rinuncia), la Corte di Cassazione ribadisce che per il risarcimento del danno alla salute è necessario accertare due nessi di causa.
a) Il primo, tra condotta lesiva e lesione, da accertarsi secondo le regole della causalità materiale, e di conseguenza applicando i criteri dettati dagli artt. 40 e 41 c.p., è volto a verificare la sussistenza della responsabilità ed a identificare il soggetto cui imputarla.
b) Il secondo, tra lesione e conseguenze dannose, da accertarsi – dopo aver verificato la sussistenza della causalità materiale – secondo le regole della causalità giuridica, è volto ad individuare e selezionare le conseguenze dannose dell’evento che possono essere risarcite (e la misura di detto risarcimento).

Secondo quanto rilevato dalla Corte, la preesistenza di malattie o menomazioni in capo alla vittima può incidere sia sul nesso di causalità materiale, andando a costituire una concausa della lesione, che sul nesso di causalità giuridica, rappresentando una concausa della menomazione.
Se il pregresso stato del danneggiato ha concausato la lesione iniziale dell’integrità psicofisica dello stesso, di detto stato non si dovrà tener conto né ai fini della liquidazione del danno, né ai fini della determinazione del grado di invalidità.
Ciò in quanto, come spiegato in sentenza, costituendo la preesistenza patologica una concausa naturale dell’evento di danno che concorre con il fatto dell’uomo, il precetto dell’equivalenza causale dettato dall’art. 41 c.p. rende irrilevante la citata concausa.

Del pari irrilevante, ai fini della liquidazione del danno e della determinazione del grado di invalidità permanente, è la preesistenza di malattie o menomazioni che non ha concausato la lesione, né ha aggravato o è stata aggravata dalla menomazione sopravvenuta.
La preesistenza di menomazioni rileverà infatti solo sul piano della causalità giuridica e quindi della delimitazione dei danni eziologicamente imputabili al responsabile.
La causalità giuridica andrà accertata facendo ricorso al giudizio controfattuale, così da stabilire col metodo dalla cd. “prognosi postuma” quali sarebbero state le conseguenze dell’illecito, in assenza della patologia preesistente. Se tali conseguenze dell’illecito possono teoricamente ritenersi pari sia per la vittima reale, sia per un’ipotetica vittima perfettamente sana prima dell’infortunio, dovrà concludersi che non vi è alcun nesso di causa tra preesistenze e postumi, i quali andranno di conseguenza valutati e quantificati come se a patirli fosse stata una persona sana.

La Corte di Cassazione passa poi ad analizzare l’ipotesi in cui lo stato anteriore della vittima non abbia concausato la lesione, ma abbia concausato il consolidarsi di postumi più gravi rispetto a quelli che avrebbe patito la vittima se fosse stata sana al momento dell’illecito, e rileva come sorga per l’interprete il problema di accertare un nesso di causalità giuridica e, quindi, di stabilire se e quali postumi derivati dalla lesione possano dirsi una “conseguenza immediata e diretta” dell’infortunio ai sensi dell’art. 1223 c.c.
Il citato accertamento imporrà all’interprete la soluzione di ulteriori due questioni:
a) la prima riguarda i criteri di accertamento del danno, e consiste nello stabilire se delle preesistenze si debba tener conto nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, oppure se ne debba tener conto nella aestimatio del risarcimento;
b) la seconda riguarda la liquidazione del danno, e consiste nell’individuare la regola giuridica che consenta di “sterilizzare” il risarcimento dai pregiudizi non causalmente imputabili al responsabile, senza però violare il criterio di progressività del quantum del danno biologico.

Ritiene la Suprema Corte che le richiamate questioni debbano essere risolte come segue:
i) di eventuali preesistenze si deve tener conto nella liquidazione del risarcimento, non nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, il quale va determinato sempre e comunque in base all’invalidità concreta e complessiva riscontrata in corpore, senza innalzamenti o riduzioni, i quali si tradurrebbero in un’attività liquidativa che esula dai compiti del medico – legale;
ii) di eventuali preesistenze si deve tener conto, al momento della liquidazione monetizzando l’invalidità accertata e quella ipotizzabile in caso di assenza dell’illecito, e sottraendo l’una dall’altra.

La Corte di Cassazione nella sentenza n. 28986/19 conclude pertanto riassumendo come segue i riportati principi:
“1) lo stato anteriore di salute della vittima di lesioni personali può concausare la lesione, oppure la menomazione da quest’ultima derivata;
2) la concausa di lesioni è giuridicamente irrilevante;
3) la menomazione preesistente può essere concorrente o coesistente col maggior danno causato dall’illecito;
4) saranno “coesistenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti non mutano per il fatto che si presentino sole od associate ad altre menomazioni, anche se afferenti i medesimi organi; saranno invece “concorrenti” le menomazioni i cui effetti invalidanti sono meno gravi se isolate, e più gravi se associate ad altre menomazioni, anche se afferenti ad organi diversi;
5) le menomazioni coesistenti sono di norma irrilevanti ai fini della liquidazione; né può valere in ambito di responsabilità civile la regola sorta nell’ambito dell’infortunistica sul lavoro, che abbassa il risarcimento sempre e comunque per i portatori di patologie pregresse;
6) le menomazioni concorrenti vanno di norma tenute in considerazione:
a) stimando in punti percentuali l’invalidità complessiva dell’individuo (risultante, cioè dalla menomazione preesistente più quella causata dall’illecito), e convertendola in denaro;
b) stimando in punti percentuali l’invalidità teoricamente preesistente all’illecito, e convertendola in denaro; lo stato di invalidità anteriore al sinistro dovrà essere però considerata pari al 100% in tutti quei casi in cui le patologie pregresse di cui il danneggiato era portatore non gli impedivano di condurre una vita normale.
c) sottraendo l’importo (b) dall’importo (a);
7) resta imprescindibile il potere – dovere del giudice di ricorrere all’equità correttiva ove l’applicazione rigida del calcolo che precede conduca, per effetto della progressività delle tabelle, a risultati manifestamente iniqui per eccesso o per difetto”.

iii) Sentenza n. 28987/19 (3) sulla graduazione differenziata delle colpe tra casa di cura e medico responsabile.

La sentenza n. 28987/19 affronta, in particolare, la problematica della corretta identificazione del contenuto e dei limiti dell’azione di rivalsa esercitata dalla struttura sanitaria nei confronti del medico, nel periodo antecedente l’entrata in vigore della legge n. 24/2017.

In merito al contenuto dell’azione di rivalsa, la Corte di Cassazione ritiene la più conforme a diritto la soluzione che prevede la ripartizione del danno da “malpractice” ripartito tra struttura e sanitario, nonostante sia a quest’ultimo imputabile la responsabilità per la causazione dell’evento dannoso, salvo i casi, del tutto eccezionali, di inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile ed oggettivamente improbabile devianza da quel programma condiviso di tutela della salute (è il caso ad esempio del sanitario che senza alcuna valida giustificazione esegua un intervento di cardiochirurgia fuori dalla sala operatoria dell’ospedale).
Ciò in quanto:
– operando il medico nel contesto dei servizi resi dalla struttura presso cui svolge la propria attività, la sua condotta negligente non può essere facilmente isolata dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operata dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante;
– in forza dell’art. 1228 c.c. che imputa al debitore gli illeciti commessi dai suoi ausiliari in ragione della libertà del titolare dell’obbligazione di decidere come provvedere all’adempimento della stessa, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte (“cuius commoda eius et incommoda”), ne consegue che la struttura che si avvale della collaborazione del sanitario per l’adempimento della propria obbligazione dovrà rispondere dei pregiudizi da quest’ultimo cagionati.

Relativamente ai criteri per quantificare la misura (limiti) della rivalsa esercitabile dalla struttura nei confronti del sanitario, la Corte di Cassazione rimanda alla disciplina contenuta:
– nell’art. 2055 c.c., che sancisce il principio generale della ripartizione della responsabilità in ragione della gravità della rispettiva colpa e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate, e detta (al terzo comma) una presunzione “iuris tantum” di pari contribuzione al danno da parte dei condebitori solidali, che impone al soggetto che ha risarcito il danno di provare la diversa misura delle colpe e della derivazione causale;
– nell’art. 1298 c.c. che contiene la regola in forza della quale l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono uguali, salvo che non risulti diversamente.

Pertanto, per superare la presunzione di divisione paritaria “pro quota” dell’obbligazione solidale, ricavabile dai richiamati artt. 2055 e 1298 c.c., non è sufficiente escludere la mancanza di responsabilità in capo alla struttura ma è necessario dimostrare, oltre alla colpa esclusiva del sanitario, la derivazione causale dell’evento dannoso da una condotta di quest’ultimo del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità.

Pertanto, alla luce delle riportate argomentazioni giuridiche, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 28987/19 ha pronunciato il seguente principio: “in tema di danni da “malpractice” medica nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, nell’ipotesi di colpa esclusiva del medico la responsabilità dev’essere paritariamente ripartita tra struttura e sanitario, nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli eccezionali casi d’inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza del programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata”.

iv) Sentenza n. 28988/19 (4) sul criterio per la liquidazione del danno patrimoniale.

La sentenza n. 28988/19 fornisce, ai fini della liquidazione del danno, un corretto inquadramento dogmatico dei vari modi in cui l’evento dannoso può incidere sull’attività di lavoro del danneggiato ed esclude che la liquidazione del danno accertato possa effettuarsi facendo generica applicazione del criterio del triplo della pensione sociale.

In particolare, la Corte di Cassazione elenca le seguenti fattispecie:
1) la vittima conserva il reddito, ma lavora con maggior sofferenza. Trattasi di danno da lesione della cenestesi lavorativa (ossia la compromissione della sensazione di benessere connessa allo svolgimento del proprio lavoro) che verrà generalmente risarcito attraverso un appesantimento del risarcimento del danno biologico, con il criterio della personalizzazione, a meno che la maggiore penosità del lavoro non comporti l’eliminazione o la riduzione della capacità del danneggiato di produrre reddito, nel qual caso detto pregiudizio andrà risarcito come danno patrimoniale;
2) la vittima perde in tutto o in parte il proprio reddito (e non il lavoro). Trattasi di danno patrimoniale da lucro cessante liquidabile in base al reddito perduto;
3) la vittima ha perso il lavoro ma può svolgerne altri compatibili con la propria formazione professionale. Trattasi ancora di danno patrimoniale da liquidare tenendo conto del periodo di inoccupazione e della verosimile differenza (se esistente) tra reddito attuale e presumibile reddito futuro;
4) la vittima non aveva un lavoro e non potrà procurarselo a causa dell’invalidità. Trattasi sempre di danno patrimoniale da lucro cessante da liquidare in base al reddito che verosimilmente il soggetto leso, se rimasto sano, avrebbe percepito.

Fatta la riportata analisi, la sentenza che ci occupa chiarisce i criteri da adottare per la liquidazione del conseguente danno patrimoniale.
Sul punto, la Corte di Cassazione esclude che per la liquidazione del danno patrimoniale possa trovare generale applicazione il criterio del triplo della pensione sociale, di cui all’art. 4 del D.L. n. 857/76, in quanto, trattandosi di criterio previsto da una norma speciale, lo stesso può essere utilizzato solo ove espressamente richiamato, come nel caso dell’azione diretta contro l’assicuratore per la liquidazione del danno patrimoniale (cfr. art. 137 CdA).
Tuttavia, precisa la Corte, anche nella fattispecie da ultimo richiamata, il parametro da utilizzare per la quantificazione del danno patrimoniale subito dal danneggiato titolare di reddito da lavoro, rimane il reddito da quest’ultimo effettivamente perduto, salva la facoltà per il giudice di utilizzare il criterio del triplo della pensione sociale ove accerti che la vittima, al momento del sinistro, percepiva un reddito talmente modesto o sporadico da rendere la stessa sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato.

v) Sentenza n. 28989/19 (5) sull’indebita duplicazione del risarcimento e sul risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita.

Con la sentenza 28989/19, la Corte di Cassazione si preoccupa di confermare il consolidato orientamento espresso dai propri precedenti arresti in merito al principio della onnicomprensività della liquidazione del danno ed in merito ai presupposti per la liquidazione del danno da perdita della vita.

In relazione alla prima questione, la Corte di Cassazione ribadisce il principio in forza del quale costituisce duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione del danno da perdita del rapporto parentale e di ulteriori danni non patrimoniali, rappresentando la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita (danno morale soggettivo) e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita (danno dinamico relazionale) componenti del complessivo pregiudizio, che deve essere integralmente ed unitariamente risarcito.
Dette ulteriori voci di danno potranno formare oggetto di separata valutazione e liquidazione solo nei casi in cui sia dedotta e dimostrata la loro esistenza.

In merito alla seconda questione, la Corte di Cassazione, fermo restando il principio in forza del quale viene esclusa la liquidazione, iure hereditario, del danno per la perdita da parte del de cuius del bene della vita in sé considerato, riconosce la risarcibilità in favore degli eredi del de cuius del cd. “danno biologico terminale” allorquando tra la lesione e la morte si interponga un apprezzabile lasso di tempo e la persona si trovi in una condizione di “lucidità agonica”.

vi) Sentenza n. 28990/19 (6) sulla retroattività del criterio tabellare di liquidazione del danno.

La sentenza n. 28990/19 della Corte di Cassazione, oltre alla questione dei criteri da adottare per la liquidazione del cd. “danno differenziale” (confermando il principio già espresso dalla commentata sentenza n. 28988/19), affronta il problema della retroattività delle disposizioni contenute nell’art. 3 comma 3 della L. n. 189/12 (c.d. “Legge Balduzzi”) che, come l’art. 7, comma 4, della L. n. 24/17 (cd. “Legge Gelli – Bianco), in materia di responsabilità sanitaria ha rinviato per la liquidazione del danno biologico ai parametri già previsti dagli artt. 138 e 139 del D. Lgs. n. 209/05 in tema di assicurazione della responsabilità civile da sinistro stradale.

In particolare, la Corte di Cassazione, respingendo il motivo di gravame, ritiene applicabili retroattivamente ai rapporti in corso, ed ai giudizi pendenti in materia di responsabilità professionale medica, le norme contenute nel D.L. n. 158/12 – conv. in L. n. 189/12 (e le norme contenute nella L. n. 24/17) che prevedono l’adozione del criterio tabellare per la liquidazione del danno non patrimoniale.

La Suprema Corte, a fondamento del proprio convincimento, richiama le seguenti ragioni:
i) la fattispecie dell’illecito civile – nei suoi elementi costitutivi – non è stata toccata dalla cd “Legge Balduzzi” (o dalla cd. “Legge Gelli – Bianco”), la quale non pone limiti alla responsabilità civile e non nega alla vittima – o limita ingiustificatamente e sproporzionatamente – il diritto di credito al risarcimento del danno. Infatti, l’art. 3, comma 3, della citata legge, si limita ad indicare al giudice un criterio di liquidazione del danno che specifica, ma non deroga, le norme codicistiche che, ex artt. 1226 e 2056 c.c., conferiscono il potere equitativo integrativo, non ponendo pertanto alcun problema di successioni di leggi nel tempo.
ii) il principio di irretroattività della legge impedisce che l’intervento del legislatore vada ad incidere su effetti giuridici già interamente prodottosi, in quanto dalla legge ricollegati a determinati fatti, assunti ad elementi della fattispecie, che, una volta venuti ad esistenza nella realtà non possono più essere negati o modificati. Di conseguenza, violerebbe il riportato principio una nuova norma che: 1) modifichi la struttura della fattispecie normativa dettata dagli artt. 1218 e 2043 c.c.; 2) introduca limitazioni alla responsabilità civile sul piano oggettivo o soggettivo; 3) escluda o comprima l’estensione delle “conseguenze – dannose” risarcibili, non riconoscendo ad esempio alcune “voci” o componenti del danno non patrimoniale. Gli indicati limiti alla retroattività della legge, non ricorrono però nella diversa ipotesi (come quella dell’applicazione del criterio tabellare per la liquidazione del danno non patrimoniale) in cui la norma generale ed astratta venga ad incidere su di un rapporto giuridico ancora in corso di esecuzione o ancora controverso, regolando e definendo le modalità di apprezzamento del valore monetario equivalente di un bene perduto che deve essere risarcito, ovvero confermando i limiti entro i quali le prestazioni non ancora eseguite possono considerarsi leciti;
iii) anche le “norme di diritto sostanziale”, come le “norme di diritto processuale”, possono essere applicate a rapporti in corso o non ancora definiti, essendo preclusa la retroattività dalla impossibilità di modificare “ex post” i fatti genetici del rapporto che hanno ormai esaurito i loro effetti con il perfezionamento della fattispecie normativa. All’opposto, gli aspetti funzionali connessi all’esecuzione del rapporto ben possono essere regolati diversamente ove sopravvenga una nuova disciplina dei fatti ed atti che devono ancora verificarsi o essere compiuti;
iv) il criterio di determinazione tabellare del danno non patrimoniale, non incidendo su alcuno degli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità sanitaria, non tocca situazioni giuridiche precostituite ed acquisite nel patrimonio del soggetto e, di conseguenza, è insuscettibile di ledere l’affidamento riposto dai soggetti di diritto nella stabilità dei rapporti giuridici già insorti ed esauriti e nella prevedibilità degli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega a determinati fatti o condotte. La nuova normativa, infatti, si rivolge esclusivamente al giudice delimitandone l’ambito di discrezionalità nella liquidazione del danno non patrimoniale con criterio equitativo ed indicando quale criterio più adeguato quello tabellare, così da porre al riparo l’esercizio giurisdizionale da eventuali critiche per la violazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., volte a contestare l’arbitrarietà, l’illogicità o l’assenza di motivazione della quantificazione del citato danno.

Pertanto, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 28990/19 conclude enunciando il seguente principio di diritto: “Non intervenendo a modificare con efficacia retroattiva gli elementi costitutivi della fattispecie legale della responsabilità civile (negando od impedendo il risarcimento di conseguenze dannose già realizzatisi), l’art. 3, comma 3, del decreto legge 13 settembre 2012 n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2012 n. 189 (cd. Legge Balduzzi che dispone l’applicazione, nelle controversie concernenti la responsabilità – contrattuale od extracontrattuale – per esercizio della professione sanitaria, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale secondo le Tabelle elaborate in base agli artt. 138 e 139 del CAD – criteri di liquidazione del danno non patrimoniale, confermati anche dalla successiva legge 8.3.2017 n. 24 cd. Gelli – Bianco), trova diretta applicazione in tutti i casi in cui il Giudice sia chiamato a fare applicazione, in pendenza del giudizio, del criterio di liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, con il solo limite della formazione del giudicato interno sul “quantum”. Non è ostativa, infatti, la circostanza che la condotta illecita sia stata commessa, ed il danno si sia prodotto, anteriormente all’entrata in vigore della legge, o che l’azione risarcitoria sia stata promossa prima dell’entrata in vigore del predetto decreto legge; né può configurarsi una ingiustificata disparità di trattamento tra i giudizi ormai conclusi ed i giudizi pendenti, atteso che proprio e soltanto la definizione del giudizio – e la formazione del giudicato – preclude una modifica retroattiva della regola giudiziale a tutela della autonomia della funzione giudiziaria e del riparto delle attribuzioni al potere legislativo e al potere giudiziario. Neppure può ravvisarsi una lesione del legittimo affidamento in ordine alla determinazione del valore monetario del danno non patrimoniale, in quanto il potere discrezionale di liquidazione equitativa del danno, riservato al Giudice di merito, si colloca sul piano distinto e comunque al di fuori della fattispecie legale della responsabilità civile: la norma sopravvenuta non ha, infatti, modificato gli effetti giuridici che la legge preesistente ricollega alla condotta illecita, né ha inciso sulla esistenza e sulla conformazione del diritto al risarcimento del danno insorto a seguito del perfezionamento della fattispecie”.

vii – viii) Sentenze n. 28991/19 (7) e n. 28992/19 (8) sulla ripartizione dell’onere probatorio.

Con le sentenze nn. 28991/19 e 28992/19 la Corte di Cassazione fornisce i necessari chiarimenti, alla luce dei vigenti contrasti giurisprudenziali, in merito alla ripartizione dell’onere della prova tra danneggiato e danneggiante e specifica le circostanze relativamente alle quali, nell’ambito della responsabilità medica (ovvero della responsabilità professionale in generale), il citato onere incombe sul danneggiato.

In particolare, ritiene la Corte che, nell’ambito della responsabilità medica (ma il principio vale nell’ambito della responsabilità professionale in generale), il soggetto che alleghi un danno alla salute oltre a dover dimostrare detto danno e le conseguenze pregiudizievoli che ne sono derivate (cd. “causalità giuridica”), dovrà anche dimostrare – facendo eventualmente ricorso alle pure presunzioni – il nesso di causalità esistente tra quell’evento e la condotta del professionista nella sua materialità (cd. “causalità materiale”).
Ciò in quanto, come chiarito in sentenza, nel campo delle obbligazioni di diligenza professionale medica oggetto della prestazione, ex art. 1176, comma 2, c.c., non è la guarigione dalla malattia o l’impedimento dell’insorgenza di nuove patologie o l’aggravarsi di quelle esistenti, ma la cura del bene salute nel pieno rispetto delle leges artis, l’inadempimento delle quali non ha un’intrinseca attitudine causale alla produzione del danno evento, il quale può dipendere da altre cause.
Di conseguenza, chiarisce la Corte, una volta che il creditore ha provato, anche avvalendosi di presunzioni, il nesso eziologico fra la condotta del medico, nella sua materialità, e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie, sarà onere di quest’ultimo dimostrare o l’adempimento o che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a lui non imputabile.

La Corte di Cassazione nelle sentenze n. 28991/19 e n. 28992/19 afferma pertanto il seguente principio di diritto: “ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione”.

Dal riportato principio, come dichiarato in sentenza, consegue “che, se resta ignota – anche mediante l’utilizzo di presunzioni – la causa dell’evento di danno, le conseguenze sfavorevoli ai fini del giudizio ricadono sul creditore della prestazione professionale, se invece resta ignota la causa dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione di diligenza professionale, ovvero resta indimostrata l’imprevedibilità ed inevitabilità di tale causa, le conseguenze sfavorevoli ricadono sul debitore”.

ix) Sentenza n. 28993/19 (9) sul danno da perdita di “chance”.

Con la sentenza n. 28993/19 la Corte di Cassazione identifica in modo chiaro e preciso il cd. “danno da perdita di chance”, ponendo così fine alla confusione, generatasi in dottrina e giurisprudenza, con il diverso danno costituito dalla perdita anticipata della vita.

In particolare, la Corte di Cassazione, al fine di evidenziare gli elementi che differenziano le due menzionate tipologie di danno, elenca le seguenti fattispecie che possono configurarsi nell’ambito della responsabilità medica, ed in particolare in quello oncologico:
a) la condotta (commissiva o più spesso omissiva) colpevolmente tenuta dal sanitario ha cagionato la morte del paziente ma, secondo i risultati offerti dalla disposta ctu, una diversa condotta (quale la corretta e tempestiva diagnosi) ne avrebbe consentito la guarigione. In tal caso l’evento (conseguenza del concorso di due cause: la malattia e la condotta colpevole) è da attribuire interamente al sanitario, il quale di conseguenza dovrà rispondere del danno biologico cagionato al paziente e del danno da lesione del rapporto parentale cagionato ai familiari;
b) la condotta colpevole del sanitario non ha cagionato la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) ma, come accertato in sede di ctu, ha provocato una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della medesima vita per tutta la sua durata. In questo caso, il sanitario dovrà rispondere dell’evento di danno costituito dalla perdita anticipata della vita e dalla sua peggior qualità, ma non risulterà integrata una fattispecie di perdita di chance, essendo l’evento danno caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, ma dalla certezza (ovvero rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali;
c) la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata e sull’esito finale, rilevando di converso, in peius, sulla sola e diversa qualità ed organizzazione della vita del paziente. In tal caso, l’evento di danno, se provato e dimostrato, sarà rappresentato da una diversa e peggiore qualità della vita, conseguente alla lesione del diritto di autodeterminazione, non riconducibile alla diversa fattispecie della chance;
d) la condotta colpevole del sanitario non ha avuto alcuna incidenza causale sullo sviluppo della malattia, sulla sua durata, sulla qualità di vita medio tempore vissuta e sull’esito finale. In detto caso, la mancanza di conseguenze dannose, impedisce qualsiasi forma di risarcimento;
e) la condotta colpevole del sanitario ha avuto come conseguenza, un evento di danno incerto, in quanto le conclusioni della ctu risultano espresse in termini di insanabile incertezza in merito all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura al tempo note. Detta possibilità è la sola fattispecie che consente legittimamente di parlare di chance perduta la quale sarà risarcita in via equitativa se risulta provato il nesso causale tra la condotta e l’evento incerto (ossia la possibilità perduta), e risultano dimostrate le conseguenze pregiudizievoli (ripercussioni sulla sfera non patrimoniale del paziente), le quali devono però rivestire i caratteri della apprezzabilità, serietà e consistenza.

In pratica, rileva la Corte che, nei casi in cui risulti dimostrato che la condotta colpevole del sanitario ha cagionato la morte anticipata del paziente – il quale sarebbe, con certezza o probabilità, sopravvissuto più a lungo ed in condizioni di vita (sia fisiche che spirituali) migliori per un periodo di vita specificamente indicato dal CTU – non si potrà parlare di “maggiori chance di sopravvivenza” ma di un evento di danno rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita e dalla sua peggiore qualità.

All’opposto, secondo quanto riportato in sentenza, nel caso in cui il danno “venisse morfologicamente identificato, in una dimensione di insuperabile incertezza, con una possibilità perduta, tale possibilità integra gli estremi della chance, la cui risarcibilità consente di temperare equitativamente il criterio risarcitorio del cd. “all or nothing”, senza per questo essere destinata ad incidere sui criteri di causalità, né ad integrarne il necessario livello probatorio”.

x) Sentenza n. 28994/19 (10) sulla retroattività delle norme sostanziali contenute nella cd. “Legge Balduzzi” e nella cd. “Legge Gelli – Bianco”.

La sentenza n. 28994/19 della Corte di Cassazione affronta il problema dell’applicazione retroattiva delle disposizioni contenute nell’art. 3, comma 1, del D.L. n. 158/12, convertito con modificazioni nella L. n. 189/12 (cd. “Legge Balduzzi”), e nell’art. 7, comma 3, della successiva L. n. 24/17 (cd. “Legge Gelli – Bianco”) in merito alla natura, contrattuale o extracontrattuale, della responsabilità del sanitario.

In particolare, la Corte di Cassazione esclude, in mancanza di specifica disposizione transitoria contenuta nei menzionati articoli, che la disciplina dagli stessi dettata possa trovare applicazione retroattiva e, di conseguenza, in forza dell’art. 11 delle preleggi, l’art. 3 della cd. “Legge Balduzzi” e l’art. 7 della cd. “Legge Gelli – Bianco” regolano unicamente le fattispecie che si sono verificate successivamente alla loro entrata in vigore (rispettivamente il 1° gennaio 2013 ed il 1° aprile 2017).

La Suprema Corte, dopo aver ripercorso i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, dalla giurisprudenza costituzionale e dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo in merito ai limiti imposti al legislatore ordinario nell’emanare leggi retroattive, richiama a fondamento della conclusione raggiunta i seguenti principali argomenti:

– in forza dell’art. 11 delle preleggi, la legge ha effetto solo per l’avvenire e, di conseguenza, la sua retroattività deve essere esplicitamente prevista dalla nuova legge, ovvero deve trovare degli indici sicuri che permettano di formularla con certezza. Nel caso dei menzionati artt. 3 e 7 non sussiste alcuna declaratoria di retroattività, né sono ravvisabili gli indici sicuri che ne consentano la formulazione;
– all’opposto, rappresenta indice inequivocabile della irretroattività degli articoli in commento, la circostanza che un simile intervento da parte del legislatore verrebbe ad interferire con il potere attribuito al giudice di interpretare i fatti e di qualificarli giuridicamente, e di conseguenza, verrebbe inammissibilmente ad incidere – seppur indirettamente – sui singoli processi in corso, con evidente lesione dell’affidamento di chi ha intrapreso un’azione giudiziaria sulla base di regole sostanziali certe (come quelle sulla natura della “contrattuale” della responsabilità del sanitario), con dirompenti conseguenze sul riparto dell’onere di prova e sulla prescrizione. In ragione di ciò è illegittimo qualificare in termini di responsabilità extracontrattuale i fatti costituenti responsabilità civile del sanitario posti in essere prima dell’entrata in vigore della cd. “Legge Balduzzi” e della cd. “Legge Gelli – Bianco”.

Alla luce delle riportate considerazioni, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 28994/19 formula il seguente principio di diritto: “Le norme sostanziali contenute nella legge n. 189/2012, al pari di quelle di cui alla legge n. 24/2017, non hanno portata retroattiva, e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca precedente la loro entrata in vigore, a differenza di quelle che, richiamando gli art. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private in punto di liquidazione della danno, sono di immediata applicazione ai fatti pregressi…” (come affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 28990/19, commentata in precedenza).

Pubblicato il 16 dicembre 2019