LA CORTE DI CASSAZIONE NEGA LA RISARCIBILITA’ DEL DANNO SE E’ IMPOSSIBILE ACCERTARE l’ESISTENZA DI POSTUMI PERMANENTI
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Successione dell’incorporante nell’obbligo di bonifica di siti inquinati. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sent. n. 10/2019.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 10/2019, pubblicata il 23 Ottobre 2019, ritiene che la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche ad una società che, pur non avendo contribuito all’inquinamento, sia subentrata al soggetto responsabile dello stesso per effetto di fusione per incorporazione (nel regime previgente la riforma operata dal D. Lgs. n. 6/2003). Il rimedio della bonifica può essere ordinato anche per condotte poste in essere prima che lo stesso venisse introdotto nell’ordinamento giuridico solo se gli effetti delle citate condotte permangono nel momento in cui viene adottato il provvedimento amministrativo che dispone la bonifica.

La vicenda trae origine dal giudizio di impugnazione promosso da una società avverso l’ordine impartitogli, quale successore – a seguito di fusione per incorporazione – delle società autrici dell’inquinamento, dalla Provincia di Asti di bonificare uno stabilimento industriale in cui, sin dal secolo scorso, venivano prodotti ammortizzatori per auto e treni, ed in relazione al quale era stata accertata una contaminazione da cromo esavalente e solventi clorurati del sottosuolo e della falda acquifera.

Fra i motivi del ricorso, respinto sia dal Tar Piemonte che dal Consiglio di Stato, vi era anche la questione, sollevata con l’ordinanza della IV Sez. del Consiglio di Stato che ha rimesso la causa all’Adunanza Plenaria, relativa alla possibilità di ordinare la bonifica di siti inquinati, ex art. 244 del c.d. “Codice dell’Ambiente” di cui al D. Lgs. n. 156/2002, per un inquinamento di origine industriale risalente ad epoca antecedente a quella in cui l’istituto della bonifica è stato introdotto nell’ordinamento giuridico, ed inoltre nei confronti di una società non responsabile dell’inquinamento, ma da questa avente causa per effetto di successive operazioni di fusione di società per incorporazione.

La riportata questione è stata oggetto di contrasti giurisprudenziali in quanto, come evidenziato dalla sezione remittente, sul punto si erano formati due diversi orientamenti:

–          il primo, espresso dalla V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza n. 6055/2008, escludeva che l’art. 17 del D. Lgs. n. 22/1997 – che ha introdotto nel nostro ordinamento il rimedio della bonifica – fosse in continuità normativa con l’art. 2043 c.c. – norma generale della responsabilità civile – e pertanto non riteneva possibile applicare retroattivamente la prima disposizione a condotte di inquinamento realizzate in un periodo antecedente alla sua entrata in vigore, da una società che in epoca successiva ha incorporato quella responsabile della contaminazione;

–          il secondo, espresso dalla VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza n. 5283/2007, all’opposto, riteneva applicabile il rimedio della bonifica a qualsiasi situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 22/1997.

L’Adunanza Plenaria evidenzia preliminarmente come, per la risoluzione del riportato quesito, sia necessario affrontare tre punti controversi, posti in rapporto di consecuzione logica tra di loro, ed in particolare:

i) se la condotta di inquinamento ambientale commessa prima che nell’ordinamento giuridico venisse introdotta la bonifica dei siti inquinati sia qualificabile come illecito, fonte di responsabilità civile per il suo autore, ed in quale fattispecie normativa di quest’ultimo istituto il fatto possa essere inquadrato;

ii) in caso di risposta affermativa alla lettera precedente, quali siano i rapporti tra la figura di illecito così individuato e la bonifica e pertanto se, incontestata la discontinuità normativa tra i due istituiti, sia nondimeno possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti ad epoca antecedente alla sua introduzione a livello legislativo;

iii) infine, in caso di risposta positiva anche alla precedente lettera, se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie quale la fusione, come disciplinata dalla normativa civilistica vigente all’epoca dei fatti.

In merito al primo punto, i Giudici preliminarmente ripercorrono la genesi del danno ambientale richiamando:

– la sua elaborazione quale bene giuridico autonomo ed unitario da parte della dottrina degli anni ’70,

– la successiva adozione di detta elaborazione da parte della giurisprudenza dell’epoca che, traendo fondamento dalla Costituzione (ed in particolare dagli artt. 9 e 32), ha elevato l’ambiente a diritto individuale, tutelabile in virtù della norma codicistica di carattere generale contenuta nell’art. 2043 c.c.,

– ed, infine, il suo recepimento da parte del legislatore che, con l’ormai abrogato art. 18, comma 1, della L. n. 349/1986 (che ha istituito il Ministero dell’ambiente e dettato norme in materia di danno ambientale) ha tipizzato come fatto illecito: “Qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte”, fonte di obbligo per il suo autore di risarcire il danno allo Stato.

Dopo aver ripercorso la storia del danno ambientale, l’Adunanza Plenaria, rifacendosi ai principi espressi sul punto dalla Corte costituzionale (sent. n. 641/1987), chiarisce che deve considerarsi illecito civile ogni fatto ingiusto lesivo di beni giuridicamente tutelati, compresi quelli per i quali il bisogno di protezione matura sulla base delle spinte emergenti “dall’esperienza, ispirata ai valori, personali, esplicitamente garantiti dalla Carta Costituzionale” e che, sul piano tecnico – giuridico, la tutela di questi nuovi beni viene offerta dall’atipicità della fattispecie dettata dall’art. 2043 c.c., imperniata sulla clausola generale del “fatto ingiusto” (provocato da “qualunque fatto doloso o colposo”) e sulla sua natura di norma sanzionatoria (“obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”).

In forza della riportata concezione dell’illecito civile extracontrattuale, i Giudici, rifacendosi al principio espresso dalla Corte di Cassazione (sent. n. 5650/96), disconoscono all’art. 18 della citata L. n. 349/86 portata innovativa sul piano della considerazione dell’ambiente come bene giuridico protetto, rinvenendo la fonte genetica della sua tutela direttamente nella Costituzione, “considerata dinamicamente, come diritto vigente e vivente, attraverso il combinato disposto di quelle disposizioni (quali gli artt. 2, 3, 9, 41 e 42) che concernono l’individuo e la collettività nel suo habitat economico, sociale, ambientale”.

Infine, richiamando ancora una volta i principi espressi dalla Corte Costituzionale in materia di danno ambientale, l’Adunanza Plenaria riconosce all’illecito ambientale una funzione riparatoria non limitata alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno, ma estesa a tutti i costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale, e, di conseguenza, evidenzia come il danno all’ambiente risarcibile in forza dell’art. 18 della citata L. n. 349/86 assuma i caratteri della reintegrazione in forma specifica, ossia del rimedio di carattere generale già previsto dall’art. 2058 c.c., dal quale tuttavia si differenzia in quanto il primo, a differenza del secondo, non soggiace al limite dell’eccessiva onerosità, ma solo a quello della possibilità di ripristinare lo stato dei luoghi.

Alla luce delle considerazioni svolte, rispondendo al primo quesito, i Giudici ritengono pertanto che ancor prima che nell’ordinamento giuridico venisse introdotta la bonifica, con il citato art. 17 del D. Lgs. n. 22/1997, l’inquinamento ambientale era considerato un fatto illecito.

Accertato che il danno ambientale integrava un’ipotesi di fatto illecito già prima dell’introduzione della bonifica nell’ordinamento giuridico ad opera dell’art. 17 del D. Lgs. n. 22/97, i Giudici affrontano la seconda questione e si preoccupano pertanto di stabilire i rapporti tra la citata figura di illecito civile e l’istituto della bonifica.

In primo luogo, l’Adunanza Plenaria evidenzia che la bonifica e gli altri rimedi previsti dall’art. 17 del D. Lgs. n. 22/97 (“messa in sicurezza” e “ripristino ambientale delle aree inquinate e degli impianti dai quali deriva il pericolo di inquinamento”), non segnano una discontinuità con la precedente legislazione in materia ambientale, ma si pongo all’opposto in dichiarata concorrenza con la stessa, come si evince dal disposto contenuto nell’art. 18, comma 4, dell’ora abrogato D.M. n. 471/1999 – con il quale è stato approvato il regolamento che ha fissato i limiti dei livelli di concentrazione di sostanze inquinanti – in forza del quale: “E’ fatto comunque salvo l’obbligo di ripristino dei luoghi e di risarcimento del danno ambientale ai sensi dell’articolo 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349”.

Pertanto secondo i Giudici, con il citato art. 17 del D. Lgs. n. 22/97 non è stato introdotto un nuovo fatto illecito, offensivo di un bene in precedenza non riconducibile alla tutela generale offerta dall’art. 2043 c.c., ma si è provveduto a rafforzare la tutela del bene ambiente, già oggetto di protezione legislativa in via generale in forza della citata disposizione codicistica e in via specifica dalla disposizione dell’art. 18 della L. n. 349/86 (ossia la citata legge istitutiva del Ministero dell’Ambiente).

Inoltre, secondo quanto riportato nella sentenza oggetto del presente commento, le misure introdotte dall’art. 17 del D. Lgs. n. 22/97, ora trasfuse negli artt. 239 e ss. del Codice dell’Ambiente, tendono a salvaguardare il bene ambiente da ogni evento di pericolo o danno e non è possibile ravvisare nelle stesse eventuali finalità sanzionatorie nei confronti del relativo autore.

Ciò in quanto, secondo il principio espresso dalla giurisprudenza della Corte europea, deve essere negata la natura di sanzione penale alle misure che soddisfano pretese risarcitorie o che siano essenzialmente dirette a ripristinare la situazione di legalità e restaurare così l’interesse pubblico leso.

Esclusa la natura sanzionatoria penale dell’art. 17 del citato decreto, i Giudici ritengono che lo stesso non sia soggetto al principio di carattere generale, proprio del diritto penale, dell’irretroattività della norma incriminatrice o sanzionatoria e dell’applicazione della norma più favorevole in caso di successione di norme di tale natura, e di conseguenza, ribadito che nel caso del danno ambientale con l’art. 17 del D. Lgs. n. 22/97 non è stata estesa l’area dell’illiceità rispetto a condotte in precedenza considerate conformi a diritto, ma si sono ampliati i rimedi rispetto a fatti di aggressione dell’ambiente già considerati lesivi di un bene giuridico meritevole di tutela, affermano che l’autore dell’illecito, potendovi provvedere, rimane soggetto a tutti gli obblighi conseguenti alla sua condotta illecita previsti dalle norme di legge che si sono succedute nel tempo.

Pertanto, l’Adunanza Plenaria, diversamente da quanto affermato dalla V Sez. del Consiglio di Stato con la richiamata sentenza n. 6055/2008, ritiene che, nel caso specifico, “non vi è luogo ad alcuna retroazione di istituti giuridici introdotti in epoca successiva alla commissione dell’illecito, ma casomai all’applicazione da parte della competente autorità amministrativa degli istituti a protezione dell’ambiente previsti dalla legge al momento in cui si accerta una situazione di pregiudizio in atto”.

Appurata la possibilità di applicare il rimedio della bonifica anche a condotte poste in essere prima della sua introduzione ad opera dell’art. 17 del D. Lgs. n. 22/97, i Giudici passano ad affrontare il terzo ed ultimo punto controverso, ossia la possibilità di trasferire gli obblighi di facere (bonifica, messa in sicurezza, ecc.) posti a tutela dell’ambiente in capo ad un soggetto non qualificabile come responsabile dell’inquinamento, per non essere mai stato proprietario, né tanto meno aver gestito l’impianto industriale da cui è scaturito l’inquinamento – nel caso di specie oggetto di trasferimento a terzi mediante cessione del ramo d’azienda prima della fusione per incorporazione – e, di conseguenza, senza mai aver avuto la possibilità di provvedere a rimuovere gli effetti di condotte illecite altrui sull’ambiente circostante.

In primo luogo, chiariscono i Giudici, richiamando il principio già espresso in merito alla riconducibilità del danno ambientale alla fattispecie generale di illecito civile previsto dall’art. 2043 c.c., che nei casi in cui la situazione di danno all’ambiente si protragga in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al rimedio risarcitorio si aggiunge quello della bonifica, non esistono ostacoli di ordine giuridico ad applicare quest’ultimo rimedio ad un soggetto che, pur non avendo commesso la condotta fonte di danno, sia nondimeno subentrato a quest’ultimo.

Secondo l’Adunanza Plenaria, il subentro si verifica anche nei casi di fusione alla luce del disposto dell’art. 2504 bis, comma 1, c.c. (nella versione antecedente alla riforma del diritto societario ad opera del D. Lgs. n. 6/2003), in forza del quale nella vicenda traslativa che origina a seguito della fusione sono ricompresi gli obblighi delle società estinte ovvero di quelle incorporate.

In particolare, fra gli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito della fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile e, di conseguenza, anche gli obblighi risarcitori relativi al danno all’ambiente, inquadrabile, come visto in precedenza, nella fattispecie di illecito civile ex art. 2043 c.c.

Ciò alla luce del principio espresso dal brocardo “cuius commoda eius et incommoda” sul quale era ed è attualmente fondata la disciplina delle operazioni societarie, fusione compresa, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico – formale si contrappone nondimeno sul piano economico – sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale.

Inoltre, secondo l’Adunanza Plenaria, la successione dell’obbligo di bonifica non viene meno anche nelle ipotesi in cui, come nel caso di specie, la società destinataria dell’ordine della pubblica amministrazione non ha mai acquistato l’impianto da cui origina l’inquinamento per averlo ceduto in epoca anteriore alla fusione per incorporazione della società già proprietaria del citato impianto.

Infatti, in forza del disposto di cui all’art. 2560, comma 1, c.c., la cessione d’azienda non libera il cedente dei debiti dallo stesso contratti, fra i quali anche quelli da fatto illecito, della cui esistenza il medesimo cedente può venire a conoscenza attraverso la pratica commerciale della “due diligence”.

Sulla base delle risposte fornite ai tre riportati quesiti, il Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria, afferma il seguente principio di diritto: “la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento”, e, decidendo l’intera controversia senza necessità di restituire “per il resto” il giudizio alla sezione remittente, respinge l’appello promosso dalla società.

Pubblicato il 11 novembre 2019