Con la sentenza n. 21200 del 27/08/18, la Corte di Cassazione, Sez. II^ – Civile, affronta la problematica della data dalla quale calcolare l’eccessiva durata del procedimento fallimentare, ai fini dell’indennizzo previsto dall’art. 2 bis della Legge n. 89/2001 (cd. “Legge Pinto”).
Con la richiamata pronuncia la Suprema Corte, abbandonando il proprio precedente consolidato orientamento (Cass. Civ., sentt. n. 2013/2017, n. 20732/2011, n. 2207/2010), in forza del quale per valutare l’eccessiva durata del procedimento fallimentare deve tenersi conto della data in cui il creditore ha presentato la domanda di ammissione al passivo, ritiene invece che l’eccessiva durata del procedimento deve essere valutata tenendo conto, quale dies a quo, del decreto di ammissione del credito, in via tempestiva o tardiva, al passivo fallimentare. Infatti, secondo il giudice di legittimità, solo dal momento dell’ammissione i creditori, effettivamente riconosciuti tali, subiscono gli effetti della irragionevole durata dell’esecuzione fallimentare nella quale si sono insinuati, rimanendo per gli stessi irrilevante la durata pregressa della procedura alla quale sono rimasti, fino a quel momento, estranei.
Si ricorda che, in forza dell’art. 2 bis, comma 1, della Legge Pinto, la somma che il Giudice può liquidare a titolo di equa riparazione, non può essere inferiore ad € 400,00 e superiore ad € 800,00 (salvo le maggiorazioni nei casi previsti dal medesimo comma 1 e le riduzioni elencate dai successivi commi 1 bis ed 1 ter) per ciascun anno, o frazione di anno superiore ai sei mesi, che eccede la ragionevole durata del processo.
In ogni caso (art. 2, comma 3), l’importo dell’indennizzo non può superare il valore della causa o, se inferiore, quello del diritto accertato dal giudice (cioè il credito ammesso al passivo).
La liquidazione dell’equo indennizzo non viene pregiudicata dalla mancata dimostrazione dell’esistenza di un danno patrimoniale dovendo comunque riconoscersi al creditore il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, risarcimento che secondo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, uniformandosi al consolidato orientamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, deve essere riconosciuto anche alle persone giuridiche (Cass. Civ.,sent. n. 13504/2004). Secondo le indicazioni espresse dalla giurisprudenza, la ragionevole durata del procedimento è quantificata in anni cinque, nel caso di fallimenti di media complessità, ovvero in anni sette nel caso di procedura fallimentari di particolare complessità (tenuto conto del numero dei creditori, dell’entità del passivo da accertare, del numero dei giudizi di opposizione allo stato passivo, ecc.).
Infine, si segnala che, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza depositata l’11 gennaio 2018 – ricorso n. 38259/09, “Cipolletta vs Italia”, ha ritenuto applicabile l’art. 6 della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, che assicura, tra le altre garanzie, la ragionevole durata del processo, anche ai procedimenti di liquidazione coatta amministrativa, imponendo pertanto ai giudici nazionali un cambiamento dell’orientamento interno.
Pubblicato il 29.8.2018